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Il Flauto Magico: la riduzione

Il FLAUTO MAGICO: la riduzione

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di Stefano Cavallini

Aver scelto di mettere in scena il Flauto Magico di Mozart, per una piccola compagnia come la nostra, è stata una vera e propria sfida.
Niente di eccezionale, quando si pensa che il ruolo dell’artista sia proprio quello di rischiare: un artista che non si metta in gioco, che non rischi, che non sfidi sé stesso, artista non può dirsi. Tuttalpiù può considerarsi un buon mestierante, nelle migliori delle ipotesi.

Non ci siamo posti il problema del pubblico. Non ce lo poniamo mai.
Abbiamo pensato di mettere in scena uno spettacolo per tutti, come in origine il teatro dei burattini, essendo nato in strada, ha sempre praticato: gli adulti avrebbero afferrato i riferimenti e i risvolti psicologici, i rapporti tra i personaggi, la simbologia; i fanciulli avrebbero capito chi era il buono o il cattivo e avrebbero parteggiato per l’uno o per l’altro, avrebbero osservato i movimenti, le risa, le urla.
In questa messa in scena però ci sarebbe stata una componente in più, che avrebbe affascinato tutti: la musica di Mozart.

Durante la lunga fase di documentazione abbiamo visto come avevano affrontato il lavoro le altre compagnie (soprattutto straniere dell’area germanofona; in Italia credo nessuno abbia realizzato un’operazione del genere), quali tecniche di animazione avevano usato, quale impostazione drammaturgica avevano scelto, quali erano state le risorse umane e finanziarie messe in gioco.
A parte la fortissima tradizione marionettistica mitteleuropea e le ingenti (per il teatro di figura) risorse, che garantivano a diverse compagnie la riuscita delle performance, la sensazione finale è stata di grande distacco.
Distacco per ciò che accadeva in scena, lontananza dai temi e dalle situazioni; infine distanza dei personaggi stessi per ciò che accadeva loro intorno, pur nella favolistica della storia e nelle ricchissime ambientazioni.
Non voglio certo mancare di rispetto a tanta tradizione e maestria, ma se la distanza dalle situazioni e dalle vicende, era dovuta principalmente alla drammaturgia e al libretto originali, spesso seguiti pedissequamente; per le figure c’era una caratteristica sgradevole che rendeva la distanza incolmabile: non aprivano la bocca.

E’ stato il primo corto circuito. E ragionando con Patrizia siamo giunti alla conclusione che le nostre figure avrebbero dovuto aprire la bocca. Bene, ma come?

Intanto mi ero procurato un libretto (in italiano che poi si rivelò pessimo) e una buona registrazione in lingua originale (che per fortuna aveva a fronte un altro libretto in lingua originale con la traduzione a fronte in inglese).
Mi accorsi subito che la storia era molto complicata, dispersiva e spesso superflua; resa incomprensibile da personaggi che nel 1791 potevano avere un senso nell’immaginario collettivo di allora, ma che oggi non hanno alcun significato.
Ascoltando la musica però capii che il libretto era stato scritto sullo sgorgare della scrittura musicale, sulle idee che Mozart aveva avuto a getto continuo.
La storia poteva anche essere sdrucita, drammaturgicamente superflua, complicata, ma la musica rattoppava, rimediava e ripagava qualsiasi buco, insulsaggine o complicazione della storia.

Sicuro che “quando scrivi o componi qualcosa, non importa da dove cominci, tanto la struttura, alla fine, devi farla quadrare” e fedele poi alla teoria della sottrazione nell’arte, dell’asciugare, del rastremare, dell’essenzializzare, ho cominciato a scrivere e soprattutto a tagliare.
Più di due ore è la lunghezza dell’opera originale: improponibile per un pubblico non preparato, di adulti o fanciulli che fosse. Così ho cominciato a togliere quei personaggi e quelle situazioni poco necessarie che non avrebbero disturbato troppo per la loro mancanza, in una parola: superflue.

Ma il problema era un altro.
Pensando ai burattini, ai loro scontri diretti, al coinvolgimento del pubblico, doveva esserci qualcosa che rendesse i nostri personaggi più vicini al mondo che conosciamo meglio, che li rendesse vivi, meno lontani dal nostro immaginario.
Così, quando a un certo punto nell’originale la storia comincia a perdersi in mille ramificazioni, facendo ammosciare il tutto, ho tagliato e introdotto uno scontro diretto tra i protagonisti e l’antagonista per eccellenza: la Regina della Notte.
Ho preso in prestito dalla Bella Addormentata Nel Bosco la circostanza per cui una fata buona cambia in un lunghissimo sonno la maledizione di una vecchia strega, che ha predetto la morte della protagonista, e ho incastrato il dialogo tra due metà del lungo canto della Regina della Notte (Der Hölle Rache kocht in meinem Herzen, una delle arie più famose) in cui effettivamente nell’originale si ritrova tradita da Tamino e dagli altri: il gioco era fatto.
Ho poi voluto accentuare la natura giocosa e clownesca di Papageno (interpretato da Patrizia) facendolo diventare quasi una maschera della Commedia dell’Arte, unico attore a interagire con le figure.

Ho lasciato (tolte le altre) le due prove più importanti (dell’acqua e del fuoco), in cui Tamino riesce a riscattare sé stesso e tutti gli altri (anche se lo scopo era in origine diverso) e il finale che ho mantenuto pressoché intatto.
In più, cercando di mettere sempre qualcosa di attualità nei lavori che facciamo, avevo deciso, di comune accordo con Patrizia, di dividere in due blocchi contrapposti i personaggi: da una parte la Regina della Notte, tenebrosa, ambigua, traditrice (come poi si rivelerà), plumbea; dall’altra Sarastro, solare, calmo, razionale, buono, leale. Due blocchi contrapposti sottolineati anche dai costumi, naturalmente scuri i primi, luminosissimi i secondi, e dai riferimenti testuali alla guerra e alla pace in vari punti della narrazione.

Infine dovevo rendere chiara la storia, nonostante il canto lirico fosse in lingua tedesca.
Una soluzione semplice sarebbe stata quella di interrompere lo spettacolo in vari punti per far entrare un narratore a spiegare ciò che il pubblico aveva appena visto e ascoltato e ciò che sarebbe accaduto dopo, ma avrebbe allentato troppo la tensione narrativa. Il tanto famoso e vituperato “climax”.
Ho scelto invece di non spiegare tutto fino in fondo. Ho scelto di rendere evidente la storia semplicemente riprendendo, nella narrazione in italiano, parte del testo appena cantato o ancora da cantare, in alternanza con la sottolineatura dei movimenti delle figure, per i vari stati d’animo.

La drammaturgia, le scene e la musica erano pronte dopo 5 mesi di lavoro.

Habanera associazione, Stefano CavalliniE i personaggi?
In questo arco di tempo Patrizia aveva quasi finito di sbozzare le teste; aveva già deciso e acquistato le stoffe per i costumi e creato le scene.
Eravamo a buon punto, ma c’erano rimaste in sospeso due questioni importanti: come far aprire la bocca alle marionette, sorreggendole allo stesso tempo, e cosa avrebbero fatto i piedi dei nostri personaggi. Sì, perché ci eravamo posti anche il problema dell’effetto innaturale dei piedi, che avrebbero ondeggiato strascicati per terra, mentre noi portavamo a spasso le marionette per i necessari movimenti di scena.

Il secondo problema, dopo alcuni tentativi, lo risolvemmo semplicemente incollando un pezzo di velcro femmina a forma di tallone sotto il piede di ogni personaggio camminante e un pezzo di velcro maschio lo avremmo incollato sulla punta delle scarpette di scena che ognuno di noi avrebbe indossato; in questo modo avremmo potuto imprimere anche un’andatura ai nostri personaggi e al tempo stesso loro avrebbero imposto a noi la loro andatura (non avremmo potuto ad esempio fare passi troppo lunghi).

E per risolvere il primo problema?
Pensai che il meccanismo non poteva essere altro che una leva. Feci qualche schizzo ricordandomi i tre tipi di leve che ognuno di noi studia a scuola; e alla fine trovai la soluzione costruendo una pinza che, sostenuta dalla parte superiore, avrebbe tenuto su la marionetta; la parte inferiore, spinta da una vite passante, avrebbe fatto muovere verso il basso la mascella, permettendogli così di aprire la bocca (si vedano le illustrazioni in questa pagina).

Dunque, avevamo finito.
Ora il lavoro passava in teatro e alla messa in scena vera e propria. Sì perché ora avremmo avuto due difficoltà in più: seguire la labiale del canto e imparare a far camminare le marionette.
Stefano Cavallini regista