Come conobbi Gaber

Con questo intervento inizia la collaborazione di Mirko Guerrini con il nostro archivio on-line. Buona lettura.
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Mi capita sovente di soffermarmi a pensare e ricordare.La cosa incredibile è che il sapore di questi ricordi è sempre buono.Sono ricordi dai contorni offuscati, poco netti, quasi come se il confine che il tempo ha segnato tra realtà e fantasia sia svanito e abbia lasciato spazio a quel mondo parallelo dove a volte un po’ si finge e un po’ si bara ma dove spesso la scintilla primaria che ha generato il ricordo resta intatta.Queste sensazioni, emozioni, sono esatte ogni qual volta ripenso a quando ho conosciuto Gaber.

Era un pomeriggio dell’estate 1999. Avevo affrontato giorni prima un provino musicale a distanza (dovevo arrangiare delle parti di fiati e di archi sopra un nastro che mi aveva spedito con incisa una registrazione molto domestica di due canzoni sue fatte chitarre e voce).

Dopo un’estenuante attesa, che durò pochi giorni, ma che allora sembrò durare un tempo infinito, arrivò la risposta positiva dalla produzione: “sei bravo, musicalmente vai bene, Giorgio però prima ti vuole conoscere. Ti aspetta un giorno di questi a casa sua”.

Ecco: il Conservatorio non mi aveva preparato a questo ennesimo esame.

Giorgio Gaber

Courtesy by Wikipedia

Non credo che sia mai esistito un corso su Come prepararsi a incontrare Gaber, e se anche ci fosse stato di sicuro avrei marinato le lezioni.
Gaber abitava in una bella villa signorile a Montemagno sopra Camaiore, in Versilia.Passo la mattina sulla spiaggia con la mia fidanzata (oggi mia moglie) mentre in macchina mi attendeva un vestito da bravo ragazzo, uno di quelli che ti metti se devi andare a incontrare Gaber.
Appena il tempo di un panino ed eccomi in macchina, infilato nel trepidante abito, mentre mi dirigo verso la casa di Gaber.

Lascio la macchina al margine del cancello di ingresso e mi viene a prendere Gianfranco (suo collaboratore da sempre col quale avevo solo parlato
per telefono durante il periodo del provino musicale), mi fa accomodare su una panca sotto un gazebo al di fuori della casa.
Spesso penso che nulla di quell’incontro fu casuale. Almeno da parte sua.

C’era questa atmosfera da incontro importante, dove tu sbirci distrattamente all’interno della casa per cogliere qualcosa, un segno, un pezzo d’arredo, un vaso o un tappeto, e cerchi di indovinare da quale parte arriverà e come sarà vestito. Quell’atmosfera dove la persona illustre si fa attendere quel tempo esatto che solo le persone illustri o gli innamorati conoscono. Ne’ tanto ne’ poco. Solo se ci azzecchi puoi arrogarti il diritto di essere considerato illustre. O innamorato.

Gaber lo era e azzeccò in pieno quel tempo.

Entra nell’esterno della casa (perché di un ingresso vero e proprio si trattò) con fare risoluto e con quella voce profonda così perfettamente compromessa dal fumo scandendo le parole sulla base del suo claudicare mi apostrofa: “Tu sei Mirko. Ciao sono Giorgio. Ti ho fatto venire perché partire per una tournée è un po’ come lasciare la propria casa per un lungo e faticoso viaggio (Gaber faceva tournée con una media di 120 concerti a stagione) e mi piace sapere prima con chi affronterò questo viaggio. Sai, quando si vive a stretto contatto, dividendo lo stesso tavolo a cena, lo stesso albergo e lo stesso palco devi essere estremamente sicuro di chi ti porti appresso. Non puoi sbagliare. Avere nel gruppo un elemento che non si inserisce o che crea tensioni è un rischio che non posso correre”.

Rimango di sasso. Mi sembra che abbia parlato senza neanche prendere fiato. Dopo una breve pausa il tono si fa più morbido meno risoluto, addirittura respira! Pensa e si sofferma, domanda e ascolta le risposte. Forse quel piccolo monologo iniziale se l’era anche preparato
chissà…

Dopo questa chiacchierata dove gli racconto chi sono e cosa faccio è lui che mi racconta la sua storia, i suoi trascorsi, il suo percorso di studi. La sua passione infinita per il jazz “che però ai miei tempi gli americani ci facevano un mazzo così, e noi allora ci buttammo a imitare i cantautori francesi, più vicini al nostro mondo espressivo. Così ho iniziato a scrivere canzoni. Perché gli americani suonavano il jazz troppo bene…”. Gli chiedo se ancora oggi pensa così; e lui garbatamente risponde che oggi i giovani hanno più possibilità di studiare, “esistono moltissime scuole dove si insegna jazz; e ci sono tantissimi bravi musicisti anche in Italia da cui poter andare a prendere lezioni. Ai miei tempi arrivava un disco al mese e lo potevi solo imparare a memoria e cercare di rifare, ma nessuno ti spiegava cosa succedeva e come si faceva a suonare così”.

Poi mi descrive brevemente gli altri elementi che formavano la compagnia: i musicisti, il suo tecnico folle, e la ragazza che si occupava dell’organizzazione e dei camerini, che ogni tanto lo rimetteva in vita con dei buoni massaggi alla schiena. “Sai è una nipote di Benedetti Michelangeli – il pianista – e allora penso che se mi massaggia lei un po’ della capacità del nonno magari me le trasferisce…”.

Dopo una breve pausa di riflessione iniziò la pratica del mio congedo, rientrando nei panni dell’uomo illustre; e con fare di chi non può prolungare oltre la chiacchierata mi saluta dicendo che ci saremo visti presto.

In seguito più volte mi è capitato di vederlo entrare e uscire dal suo personaggio anche in situazioni di estrema confidenza. Passava da un tono gioviale al tono risoluto senza nessun preavviso. Ma sempre a una condizione per lui fondamentale: il rispetto per l’altro. Anche quando sembrava calarsi nella parte del distaccato personaggio famoso, che non sai mai cosa pensa potevi sentire esattamente che nel suo atteggiamento non c’era traccia di rancore, invidia o chissà cos’altro.

Mi viene sempre da dire come un uomo d’altri tempi. Del resto chi è che nel duemila se è seduto a un tavolo e si avvicina una ragazza o una donna si alza in piedi in segno di rispetto?

Gliel’ho visto fare mille volte.

Mirko Guerrini

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